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Agenore
Fabbri Barba, Pistoia, 1911 - Savona, 1998
Sulla sua vocazione per la scultura ha avuto un’influenza determinate
l’attività del padre, artigiano del metallo, nel fabbricare
armature e altri oggetti di metallo. Ultimo di quattordici figli, si
iscrive all’Istituto d’Arte di Pistoia, ma si esercita da
solo nella scultura nella suggestione, anche spirituale, della scultura
romanica e gotica del Trecento toscano. Dal ‘33 lavora ad Albisola
pirma in una fabbrica di ceramica poi nello studio di Tullio Mazzotti:
la scultura di terracotta avanguardistica di Tullio d’Albisola
lo spinge ad esercitasi nella terracotta policroma, che sarà
la sua attività aritistica dominante fino agli anni ‘50.
Nel 1940 tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Gian Ferrari
di Milano e poi, nel 1943, alla Quadriennale di Roma. Durante la seconda
guerra mondiale combatte sul fronte jugoslavo e poi nella Resistenza.
La violenza irrazionale, la crudeltà della guerra, il dolore
umano, diventano il tema principale e ossessivo della sua opera, caratterizzata
da un’insistita drammatizzazione espressionista (Donna del popolo;
La madre, 1947). è invitato alla Biennale di Venezia del 1952
con una sala personale. Dalla metà degli anni ‘50 si trasferisce
a Milano e abbandona quasi completamente la terracotta per il bronzo
e il ferro: al dolore umano si sovrappone il tema della sofferenza degli
animali (Rissa di cani; Insetto atomizzato) e il nuovo terrore della
distruzione atomica che incombe sull’umanità (Uomo di Hiroshima).
Negli anni ‘70 i cicli delle gabbie e dei muri introducono i dubbi
dell’uomo moderno sui sistemi della scienza e dell’economia,
incarnando nella scultura riflessioni più politiche e sociali.
Contemporaneamente, accanto ai consueti temi drammatici, affiora il
motivo della speranza, simbolicamente raffigurata nell’amore tra
l’uomo e la donna. Negli anni ‘80 rallenta la sua attività
di scultore per dedicarsi alla pittura, vissuta dall’artista come
espressione di una ritrovata gioia di vivere. Nasce la serie dei Giardini
pubblici che identifica nello spazio pubblico il luogo della vitalità
gioiosa e l’immagine si traduce in una libera e informale esplosione
di colori.
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